La risposta fiorentina al celebre I ❤️ NY durò pochi giorni, travolta da una rivolta social. Sia le finalità del contest promosso dal Sindaco Renzi: “Una città come Firenze può ricavare molti soldi dalla creazione di un brand”, sia il risultato – incapace di stabilire legami emotivi con la città e i cittadini – non erano piaciuti, e il logo finì nel dimenticatoio insieme al vincitore mai ricompensato.
Non c’è paese che non sia caduto su tale tentativo: Salerno, Vancouver, Helsinki, Bruxelles, Kuala Lumpur... ovunque i cittadini, se ridotti dalle strategie di marketing al livello di meri consumatori, si sono ribellati. Eppure sono decenni ormai che le tecniche di comunicazione hanno raggiunto anche con successo le istituzioni o il settore No profit (Oxfam, Save the Children, Amnesty, WWF...). Testimonianza che il brand non è né buono né cattivo, ma dipende dall’uso che se ne fa: la costruzione di una identità pubblica o no profit non può infatti limitarsi alla facile scorciatoia di un disegno da stampare sulle t-shirt senza essere supportata da finalità etiche o civiche, e da una ricchezza simbolica che la leghi alla storia del luogo o all’identità dell’ente. Come ha scritto Simon Anholt, “dare loghi a luoghi bellissimi non fa che sminuirli: li fa sembrare confezionati proprio come fossero prodotti commerciali”.